Daniele Biondo
Ricostruire la propria identità in un Paese che non è il proprio, un Paese altro, è un compito complesso a causa di diversi fattori: dalle differenze culturali al colore della pelle, dalla lingua agli stereotipi del Paese ospitante e di quello di provenienza, dall’età alle esperienze traumatiche dei soggetti coinvolti, dalle speranze e dalle motivazioni che hanno segnato l’impresa migrante. Identità e alterità sono, dunque, profondamente intrecciati e attivano in ognuno di noi una specifica risonanza inconscia a seconda della propria esperienza di vita e del nostro personale vissuto nei confronti di tutto ciò che è uguale e diverso, interno ed estraneo, normale e strano, conosciuto e straniero.
Il disagio intimo evocato in ogni essere umano dal soggetto migrante e dalla sua identità ibrida è uno dei fattori meno esplorati rispetto al quale, a mio avviso, la ricerca clinico-teorica psicoanalitica può dare un suo specifico contributo per comprendere la specifica sofferenza del migrante e quella connessa delle nostre parti migranti.
Mai come in questo tempo il tema della migrazione interroga non solo le nostre coscienze, come cittadini del mondo attenti alle dinamiche globali dei rapporti fra i popoli, ma anche in particolare la nostra scienza.
Mi riferisco alla capacità di porci rispetto a tale fenomeno umano, socia-
le e storico in maniera non istintiva, ma scientifica ed «esperta»; cioè allacapacità di sfuggire agli stereotipi e di attingere non solo alle competenze e alle conoscenze della nostra specifica professione, ma soprattutto alla nostra capacità analitica di restare il più possibile in contatto con la nostra esperienza interna.
SOMMARIO
IDENTITÀ MIGRANTI.
Daniele Biondo
ASPETTANDO IL DOMANI!
Clinica del divenire in una società multiculturale.
Marie Rose Moro, Rahmeth Radjack
HO LA GUERRA IN TESTA…
Declinazioni dello straniero nelle adolescenze migranti
Virginia De Micco
LA LINGUA DELL’ERRANZA: L’ADOLESCENTE TRA IDENTITÀ E VERGOGNA
Chiara Rosso
RUBRICHE
LE INTERVISTE DI AEP
LA MIGRAZIONE DEI CONCETTI: IDEE AL DI LÀ DELL’OCEANO
Dialogo con Ahron Friedberg
Sofia Massia
APPORTI CLINICI
DI MADRE IN FIGLIA
Madri adolescenti alla prova dell’adolescenza dei figli
Gaia Petraglia
L’ANTICOLONIALISMO COME PROCESSO IDENTITARIO
Davide D’Ambrosio, Daphne Bollini
SCRIVERE PER FORMARSI
CREATIVITÀ DELLA FORMAZIONE ANALITICA:
LO SVILUPPO DI UN TERAPEUTA
Giuseppe Andrea Messina
LUOGHI ISTITUZIONALI
MIGRAZIONE E TRAUMA IN ADOLESCENZA
Un’applicazione del Setting Psicodinamico Multiplo
Selenia Mattioli, Maria Iannone, Romina Granci
GRAVIDANZA E MATERNITÀ NELLE FIGLIE ADOLESCENTI
DI GENITORI SUDAMERICANI
Maria Luisa Cattaneo, Sabina Dal Verme
TRANSITI
Riflessioni sul percorso di cura istituzionale di una adolescente migrante Simona Trillo
UCCIDERSI A 16 ANNI?
Nathalie de Kernier
PER AIUTARLI A CRESCERE
AFFETTI E LINGUAGGI CON GLI ADOLESCENTI MIGRANTI
Esperienze di laboratori sulle emozioni in un servizio per adolescenti
Fabrizia Di Lalla, Francesca Pacini, Tommaso Romeo
IL PUNTO SU
CULTURE DI GRUPPO
Per un’antropologia del gruppo psicoanalitico Alfredo Lombardozzi. Roma: Alpes 2021
Daniele Biondo
ARTE
Per un figlio. Regia di Suranga D. Katugampala (2017)
Filippo Bari
BIBLIOTECA DI AeP. RECENSIONI
Presentazione delle recensioni
Paola Catarci
Salman Akhtar MD (1999). The Immigrant, the Exile, and the Experience of Nostalgia
Sara Cruciani
Alberto Merini, Annalisa Vigherani (2002). Fra Djinn e Super-Io.
La relazione terapeutica possibile fra persone di mondi altri
Marilisa Rocchi
Martha Bragin (2019). Myth, Memory, and Meaning: Understanding and Treating Adolescents Experiencing Forced Migration
Maria Laura Risso
MariaLuisa Camurati, Elena Rainò, Antonella Anichini, Pia Massaglia (2019). Confluenze. L’arte terapia nei percorsi di cura integrati per il ritiro sociale in adolescenza
Sofia Massia
Claudio Widmann (2020). La Divina Commedia come percorso di vita
Paola Vichi
Il relazionarsi da decenni (e per decenni ancora dovremo farlo) con emergenze umanitarie di dimensioni bibliche mobilita inevitabilmente in tutti noi sentimenti molto contrastanti e fortemente ambivalenti. Negare tutto ciò e riferirsi alla «cultura dell’accoglienza» in termini sloganistici e ideologici (sia per sostenerla che per denigrarla) rischia di farci perdere l’attenzione alla dimensione intima del fenomeno. Rischio universale presente in ogni operazione umanitaria di aiuto nei confronti di chi è stato messo ai margini del mondo; per i cooperanti e più in generale per i volontari e per i soccorritori di ogni latitudine è sempre attuale il monito di Don Milani: Fai strada ai poveri senza farti strada. Non possiamo negare tali aspetti considerato l’angoscia che mobilita lo straniero, soprattutto lo straniero più inquietante di tutti, quello che è dentro di noi: l’inconscio. Mi riferisco non solo all’accezione pulsionale dell’inconscio, ma anche a quella culturale, meno esplorata e più insidiosa: cioè all’inconscio freudiano del «Disagio della civiltà» e alle «rinunce» che l’accoglienza della cultura dell’altro comporta in cambio dell’arricchimento che promette, ma anche all’inconscio postmoderno del «Disagio dell’inciviltà» che antepone l’interesse privato di branchi e cosche (vedi il business di mafia capitale) a quello dei migranti. La rinuncia a favore della civiltà implica la capacità di mettere da parte le nostre certezze e le nostre consuete soddisfazioni pulsionali e relazionali; una rinuncia che implica anche la perdita della protezione e della sicurezza assicurate dal noto, dal conosciuto, dall’uguale. L’antinomia fra identità e diversità interagisce con l’antinomia fra protezione e arricchimento, fra sicurezza e rischio che, in assenza di una mediazione, rischia facilmente la contrapposizione sterile.
Una pratica dell’accoglienza esperta non può evitare di fare i conti con le dinamiche inter-personali e inter-istituzionali che l’angoscia dell’estraneo mobilita e con il necessario lavoro di presa in carico di tali dinamiche profonde (sia dei migranti che degli accoglienti) che occorre fare per evitare fenomeni di rigetto, di banalizzazione, di discriminazione e di ideologizzazione. Fenomeni sostenuti dall’identificazione proiettiva che spinge ad attribuire all’altro ciò che è rifiutato dentro di noi, che scarica sull’altro le disfunzioni profonde della nostra società disanimata materialista e consumista. Per sfuggire a tali meccanismi primitivi occorre un modello d’intervento teorico-clinico complesso e articolato capace di cogliere l’intreccio fra le singole menti in campo – con le loro storie e culture – con i processi sociali e istituzionali in cui si realizza la presa in carico e la cura. Lo straniero ci interroga continuamente sul nostro modello di sviluppo, inteso non solo in termini economici, ma soprattutto in termini umani, evolutivi e, per quanto ci riguarda, in termini clinici, e cioè sul modello di cura che troppo spesso diamo per scontato e universale. Un intervento efficace ed esperto presuppone la conoscenza approfondita della specifica cultura di appartenenza delle persone migranti con le quali s’interviene.
Non meno importante è la riflessione sulla particolare fase di svilup-
po che quelle persone stanno vivendo. L’intreccio di tali aspetti etnici, culturali ed evolutivi interroga le nostre pratiche della cura del dolore psichico, orientandole verso la necessaria integrazione del vertice antropologico ed etno-psicoanalitico con il vertice della psicoanalisi del-
l’adolescenza.
L’integrazione che auspichiamo per il migrante deve prima di tutto essere da noi praticata e testimoniata dal nostro approccio epistemologico, come testimoniano i lavori del numero che vi apprestate a leggere. Un’integrazione che permette di evitare il rischio di rigetto inconscio dell’altro e della sua alterità prima segnalato e che fornisce un sicuro ancoraggio teorico-clinico all’intervento. Il lavoro dell’integrare comporta diversi compiti, come suggerisce l’etimo latino: il riparare, il ristorare, il rinfrancare, il ricreare, il rinnovare, il ricominciare (Castiglio-
ne e Mariotti, 1966). Si comprende subito da tale panoramica etimolo-
gica l’impossibilità di rivolgersi all’adolescente migrante con i nostri tra-
dizionali sistemi di cura e la conseguente necessità di esplorare le di-
verse forme di rinnovamento, ricreazione, riparazione ecc. delle nostre pratiche cliniche e dei relativi modelli epistemologici. AeP Adolescenza e Psicoanalisi già dieci anni fa, nel numero 1 del 2011, ha affrontato la tematica della migrazione, individuando nel tema dell’identità uno dei nodi principali con cui è confrontato sia il migran-
te, soprattutto se è un adolescente, sia il clinico che si rivolge a lui.
Quando abbiamo cominciato a incontrarci nel gruppo di lavoro2, che si è assunto il compito di curare la realizzazione del numero di AeP Iden-
tità migranti, ci siamo chiesti quali progressi sono stati realizzati nel-
l’ultimo decennio nella nostra capacità di comprendere e aiutare gli adolescenti migranti. Sono emerse alcuni elementi che ci sembra rappresentino le linee guida dell’intervento clinico più attuale con gli ado-
lescenti migranti.
Entrambi i numeri di AeP (quello di dieci anni fa e quello di oggi) de-
dicati alla questione migratoria sono aperti da un articolo di Marie-Rose Moro, un’autorità mondiale della clinica transculturale dell’adolescenza: una vera esperta che ha dedicato la propria vita professionale a dare
senso all’esperienza migratoria, partendo dalla propria (come ebbi modo di ascoltare in un seminario romano in cui raccontò della sua personale esperienza di figlia d’immigrati).
Nel lavoro del 2011 la Moro si concentrò sulle procedure culturali che modificano gli esseri umani, e in particolare sugli aspetti rituali d’iniziazione che garantiscono all’adolescente la riconquista del nuovo Sé, sottolineando il ruolo centrale della società degli adulti nel promuovere e organizzare tali riti. Nella sua prospettiva la conquista del sapere si ottiene non attraverso l’apprendimento di contenuti, ma attraverso il
partecipare a un contesto originale di conoscenza accompagnato dagli
adulti della comunità.
Sarebbe proprio l’impossibilità di accedere a questo tipo di esperien-
ze che impedirebbe, secondo la Moro, il processo di costruzione dell’identità nell’adolescente migrante: egli non disponendo di mediatori adulti, diventa straniero rispetto alla propria filiazione. Dunque la Moro si concentrò soprattutto sull’etiopatogenesi del trauma migratorio del-
l’adolescente. Tale lavoro trova un naturale completamento in quello che apre il presente numero centrato sugli interventi terapeutici. Moro
e Radjack presentano il distillato delle loro esperienze terapeutiche con
gli adolescenti migranti realizzato nella Maison de Solenn-Maison des
adolescents di Cochin (Paris).
Un’esperienza che offre una visione profonda dei vissuti dei ragazzi
incontrati e che permette di cogliere il senso autentico di ogni storia
raccontata, accompagnata da una mirabile applicazione delle teorie più moderne sul processo identitario in formazione. Il tema dell’analisi della costruzione delle nuove forme di identità s’intreccia, nello scritto della Moro e Radjack, con i temi, sempre attuali, dell’integrazione e del meticciato, da loro a lungo esplorati e con sapienza presentati nel loro
contributo.
I due Autori promuovono una ricerca dell’identità che esuli dalla concretezza della terra di provenienza e che si possa incarnare in tutto ciò che l’eredità culturale può offrire al soggetto. Elementi inevitabilmente conflittualizzati, considerato il processo adolescens e il necessario disancoramento dalle tradizioni familiari che esso comporta. Quando non si tiene conto di questi aspetti inerenti l’epistemologia della differenza, denunciano Moro e Radjack, il rischio di realizzare «interventi medico-sociali maldestri e intempestivi spesso inefficaci o addirittura tossici» diventa elevatissimo.
La lettura del numero di AeP che avete in mano rappresenta il miglior antidoto a questo rischio. L’impostazione rigorosamente etica e politica delle due Autrici a sua volta rappresenta una cornice irrinunciabile per avvicinarsi a tale tematica.
Il processo identitario dell’adolescente migrante di prima e seconda generazione è spesso compromesso dal doppio mandato della prima generazione e dalla fragilità narcisistica della seconda. In entrambi i casi sembra centrale lo sguardo materno e la sua capacità di rispecchiamento. L’articolo di Virginia De Micco centra tale questione con un’accurata riflessione sull’estraneità e sulla diversità associata allo sguardo materno, che ci interroga profondamente come curanti sull’attenzione che occorre riservare all’analisi fra i legami oggettuali e i legami culturali degli adolescenti migranti che prendiamo in carico.
Il tema del materno è strettamente connesso al rapporto con la lingua madre. L’attenzione all’aspetto linguistico che struttura il pensiero permette di comprendere meglio la specifica difficoltà dell’adolescente migrante inerente il duplice lavoro identitario ed emotivo che è chiamato a realizzare. Una difficoltà che può generare vissuti negativi di aggressività, vergogna e senso di colpa generati dai lutti psichici non elaborati; vissuti alla base di transfert negativi degli adolescenti migranti e controtransfert ambivalenti dei curanti. In questa direzione lavora Chiara Rosso per la quale la pluralità di lingue, parlate e pensate, diviene la lingua dell’erranza che permette di fare da connettore fra spazi diversi, interni ed esterni, fra infanzia e adolescenza, fra genitori e figli, fra generazioni e latitudini diverse.
Quello del lutto è un altro tema centrale dello psichismo migratorio, legato anche al tema più vasto del trauma. Riteniamo necessario andare oltre la diagnosi di Post Traumatic Stress Disorder (PTDS) promossa dal DSM con l’appiattimento verso trattamenti cognitivo-comportamentali ad essa connessi.
Ci sembra che questi approcci, per quanto utili sul piano nosografico, se assolutizzati diventano rischiosi dal punto di vista clinico poiché tendono spesso a negare sia il dolore profondo derivato dal trauma migratorio degli adolescenti che soprattutto le difficoltà controtransferali che l’impatto con tale dolore inespresso genera nei curanti. Il trauma, in particolare quando è correlato all’esperienza del terrore e della morte, rende il soggetto rabbioso o congelato e a volte irraggiungibile per la perdita della capacità di pensare, di sentire, di comunicare e di relazionarsi; al limite; dunque, della trattabilità poiché il suo funzionamento mentale è così tanto degradato da acquisire le caratteristiche primitive della mente tipo branco (Biondo 2020). Occorre, di conseguenza, riconsiderare la funzione genitoriale alla luce dell’esperienza della traumatizzazione e della difficoltà di filiazione e delle difficoltà culturali che essa comporta. La frattura del sentimento di appartenenza e il danneggiamento dell’esperienza oggettuale inevitabilmente influenzano la possibilità di realizzare relazioni di cura e impongono un cambio di paradigma.
A tal proposito abbiamo voluto approfondire con diversi contributi il tema della fatica di essere una madre-adolescente migrante: una condizione che comporta specifiche difficoltà nei curanti nel comprendere il codice culturale delle giovani pazienti senza appiattirli sugli schemi nosografici occidentali.
Gaia Petraglia nel suo lavoro – che prosegue idealmente la riflessio-
ne sulla funzione genitoriale «in terra straniera» intrapresa nel nume-
ro di AeP di dieci anni fa – sostiene che essere donna, migrante, ado-
lescente e madre rappresenta una eccessiva compresenza di ruoli di-
versi, che anche presi singolarmente rappresentano un bagaglio pe-
sante e impegnativo da portare. Quando poi si ha a che fare con una madre affettivamente non responsiva, come nel caso da lei presentato, la difficoltà di crescere e di realizzare il passaggio burrascoso dall’infanzia all’adolescenza, dovendo anche navigare fra le strettoie di due di-
verse culture, diventa enorme.
L’aiuto del terapeuta in questi casi si concentra sulla ricerca di stra-
tegie multiple per permettere alla paziente di riconoscersi per integrare le parti scisse di sé. La riflessione sulla matrice antropologica dei ruo-
li genitoriali e di di quelli filiali viene ulteriormente sviluppata nell’arti-
colo di Cattaneo e Dal Verme, che presentano due casi clinici di mam-
me adolescenti provenienti dal Perù. È di particolare interesse la loro ipotesi della maternità non solo come agito che permette di separarsi e
sentire una propria identità separata, nonostante il trauma migratorio,
ma anche come occasione di realizzare un ponte tra due mondi, come
occasione di riscatto e di speranza. La dinamica transgenerazionale e
intergenerazionale trova negli articoli della rivista che vi apprestare a
leggere una descrizione particolarmente avvincente ed emozionante.
Un punto di vista originale sulla relazione fra processo identitario e
anticolonialismo viene offerto dalla lettura dell’articolo di D’ambrosio e
Bollini. È originale il modo con cui hanno narrato le vicende coloniali: l’uomo bianco colonizzatore castrante abbinato alla condizione dell’indi-
geno castrato, che tenta – attraverso il canale della violenza appreso dal colonizzatore – di recuperare la sua virilità. Interessante l’ampliamento
dello sguardo che gli Autori propongono affrontando anche la questione
religiosa: il dover perdonare che non lascia spazio al voler perdonare.
I diversi lavori presenti nella rivista sono collegati da un fil rouge
molto forte, che rappresenta, a nostro avviso, uno degli approdi più mo derni dell’esperienza clinica in quest’ambito: l’importanza di conquistare la pluralità dello sguardo sull’adolescente migrante (che potrebbe aiutarci a conquistare uno sguardo più compassionevole sulle nostre parti più fragili) attraverso un setting psicodinamico multiplo. È questo uno degli ambiti più interessanti e innovativi inerenti l’estensione del metodo psicoanalitico per raggiungere aree non integrate della mente, nostre e dell’altro.
Sono convinto che ogni volta che la clinica ci confronti con una casistica particolarmente grave, irraggiungibile, impossibile da trattare e multiproblematica, che si discosta significativamente dalla casistica
tradizionale per trattare la quale siamo stati a lungo formati, occorra fare ricorso a un orientamento epistemologico nuovo, capace di affrontare la complessità della realtà dell’adolescente, di leggerne le diverse stratificazioni e di operare sulle diverse dimensioni dello psichismo attraverso interventi clinici integrati (psicoterapia individuale, psicoterapia di gruppo, intervento di Compagno Adulto o di Mentoring, intervento familiare ecc.) (Biondo 2008, 2020). Così come l’adolescente migrante deve imparare a muoversi fra diversi mondi e a costruire, come affermano Moro e Radjack, dei collegamenti tra questi mondi, così anche noi curanti dovremmo imparare a esplorare le diverse dimensioni della cura senza perdere la specificità del nostro assetto psicoanalitico, ma rieditando il nostro setting, mettendoci in discussione, aprendoci
alla cultura istituzionale dell’altro.
Questa è, a mio avviso, la vera sfida con la quale siamo confrontati nell’impatto con le nuove patologie degli adolescenti. I contributi in questo numero di AeP dei colleghi che operano in alcune istituzioni pubbliche (aziende sanitarie locali) o enti del terzo settore (associazioni, cooperative, onlus) si muovono all’interno di questo nuovo orizzonte epistemologico e rappresentano quanto di più moderno si possa leggere sulla clinica dell’adolescente migrante. All’interno di questo approccio tecnico, rappresentato dal setting psicodinamico multiplo e dalla mediazione inter-istituzionale, vengono presentati i casi clinici dei diversi lavori delle associazioni (Rifornimento in volo, Nostos, Centro Alfredo Rampi) che, orbitando intorno all’ARPAd, condividono tale modello clinico d’intervento. È veramente apprezzabile il modo in cui viene descritto il lavoro integrato fra le diverse figure professionali (psicoterapeuta, educatore, antropologo, mediatore culturale), documentando in diversi modi come l’adolescente migrante possa essere sostenuto da una rete, che riesce a vederli per quello che sono e proporre loro percorsi di cura adeguati.
Il racconto degli operatori del terzo settore da un alto e del servizio
pubblico (ASL) dall’altro permette di rintracciare alcune invarianti che informano l’intervento clinico di entrambi: la consapevolezza di offrire all’adolescente migrante la preziosa possibilità di realizzare transfert multipli, differendo così l’investimento; l’impegno a costruire un sito analitico costituito da diversi dispositivi (duali e gruppali, di parola e laboratoriali, psicoterapici, educativi e sociali) dove accogliere e comprendere il trauma migratorio; il gruppo di lavoro come luogo della presa in carico condivisa; l’attenzione alla dimensione antropologica del trauma che implica l’intervento del mediatore culturale; l’attenzione al particolare intreccio fra trasformazioni adolescenziali e trasformazioni culturali che rendono ancora più complesso di quanto già non lo sia normalmente il lavoro d’integrazione dell’adolescente migrante e dei suoi operatori.
Bibliografia:
BIONDO D. (2008). Fare gruppo con gli adolescenti. Milano: FrancoAngeli.
BIONDO D. (2020). Gruppo evolutivo e branco. Milano: FrancoAngeli.
CASTIGLIONI L., MARIOTTI S. (1966). Il vocabolario della lingua latina. Quarta edizione, a cura di P. Parroni. Torino: Loescher, 2007.
RUSSO L. (1998). L’indifferenza dell’anima. Roma: Borla.