Scritti

“Kripton” di F. Munzi. Commento di M.C. Pandolfo e Conclusioni a cura di G. Fugazza – Film proiettato alla serata ARPAd Cinema del 13 Marzo 2024

Commento dopo la visione di “Kripton” ARPAd Cinema del 13 Marzo 2024

Maria Chiara Pandolfo

Vorrei iniziare rileggendovi le brevi parole che compaiono in sovraimpressione proprio all’inizio del film:

 Nell’inverno del 2022 abbiamo trascorso cento giorni con alcuni ospiti di due comunità terapeutiche del DSM della ASL Roma 1 con i loro familiari e con il personale sanitario. Grazie alla loro disponibilità abbiamo potuto osservare e filmare alcune esperienza di vita e di cura.

Ecco, queste parole sintetizzano perfettamente gli elementi fondamentali che credo siano a monte e abbiano caratterizzato l’essenza di questo film di Francesco Munzi.

Il primo elemento è il tempo: 100 giorni dedicati a conoscere, osservare, avvicinarsi, comprendere e a farsi conoscere dalle persone ospiti delle due comunità terapeutiche, dagli operatori e dalle famiglie. (l’elemento tempo, per inciso, è stato altrettanto importante nel bellissimo lungometraggio di Munzi del 2014, “Anime nere”, ambientato in Aspromonte, in Calabria; il regista anche in quel caso trascorse molto tempo in quel luogo prima di girare, per riuscire ad osservare, entrare, conoscere più profondamente quella realtà. Anime nere è stato presentato al Festival di Venezia e ha vinto ben nove David di Donatello).

In secondo luogo la delicatezza e l’attenzione con cui questo avvicinamento e questa conoscenza reciproca devono essere avvenuti.

Ancora, l’apertura verso qualcosa che non si sapeva in anticipo cosa sarebbe potuto diventare e come avrebbe potuto trasformarsi nel vivo dell’esperienza, e infine il grandissimo rispetto per tutto quello che si sono trovati a poter osservare e con cui sono entrati in contatto.

Questo insieme complesso credo abbia reso possibile qualcosa di molto particolare, di unico direi: i racconti di Dimitri, Emerson, Georgiana, Marcantonio, Silvia e Okana. Sono racconti in prima persona che si alternano con gli scambi, profondissimi, che avvengono all’interno dei colloqui di terapia, nelle diverse e multiple forme: individuale, familiare, di gruppo, di gruppo multifamiliare, in cui ci è dato di entrare.

Ci sono sei protagonisti nel film documentario di Munzi, sono a pieno titolo attori protagonisti, al contempo del film e della propria vicenda esistenziale.

 

Abbiamo la sensazione vedendo il film che non ci sia un qualcosa di artificiale, un regista, una troupe che è andata lì per far loro delle domande o per documentare le attività che si svolgono in una comunità terapeutica per pazienti con disagio mentale.

No, non si tratta di questo.

Abbiamo la sensazione di essere lì, senza disturbarli, senza invaderli. Riceviamo la straordinaria opportunità di poter ascoltare, e provare a comprendere, anche cogliendo le innumerevoli espressioni mimiche, gli sguardi, le sfumature della voce, di tutti loro, operatori e familiari compresi, su cui la telecamera si sofferma.

Inoltre c’è uno spazio che si presenta a noi, è lo spazio della Comunità terapeutica, con il suo giardino dagli alberi frondosi; è lo spazio dove vivono e dove al contempo ricevono cure (per una fase della loro vita, ma è una fase molto importante, noi lo sappiamo bene questo, chi non è addetto ai lavori non lo sa e lo può intuire vedendo Kripton) e c’è un esterno, un fuori della comunità, dove variamente i sei protagonisti si muovono. Abbiamo quindi anche, un contatto diretto, dal vivo, con una cosa importantissima per noi e direi per tutti: la cosiddetta Psichiatria di comunità, quella che è nata dalla legge Basaglia in poi (ricordo che lo scorso 11 marzo era il centenario della nascita di Franco Basaglia) e che si è da allora (1978) evoluta con grande travaglio approdando ad un modo nuovo di considerare la malattia mentale e la sua cura, all’interno del quale vorrei citare quello che penso sia il paradigma più rappresentativo di questa trasformazione nel modo di concepirla, e cioè il concetto di Recovery.

“Recovery” in italiano si traduce con guarigione-recupero, il termine inglese è più esteso per questo non viene tradotto in italiano.  Con esso non si intende guarigione clinica, remissione dei sintomi, ma si intende “recovery personale, guidata dal paziente, centrata sul paziente, basata sul diritto all’autodeterminazione e all’inclusione nella vita della comunità malgrado la persistenza della malattia (Slade, 2009; Davidson, Roe, 2007)”. Al ‘terremoto’ provocato dalla malattia, agli effetti catastrofici provocati da essa, specialmente in termini di internalizzazione dello stigma, si può contrapporre il recupero di una identità positiva, dove fattori interni ed esterni contribuiscono a realizzare un’azione di empowerment. Cito da Antonio Maone, clinico che ha lavorato a lungo nelle comunità terapeutiche ed esponente di rilievo internazionale del movimento della Recovery: “L’accettazione e la valorizzazione dell’identità positiva comportano la restituzione del potere di scelta e di controllo, di competenza e di valore, di autonomia e responsabilità. Il percorso unico e irripetibile, lungo il quale tale processo può avere luogo, è tipicamente non sequenziale, poco prevedibile e soggetto a battute d’arresto, sospensioni e riprese: ciononostante, i processi di recovery, per come a questo punto emergono, risultano essere descrivibili e concettualizzabili… E’ un processo che trascende la dimensione clinica, autenticamente personale..La recovery è un processo più che un esito, una visione, un principio-guida, più che un modello di intervento” (Maone, D’Avanzo, 2015).

Perchè cito la Recovery? Perchè credo che ci aiuti a capire il film, ci può far fare un passo avanti, anche a noi che si presuppone siamo “esperti”, “competenti” in materia di disagio mentale e della sua terapia. Voglio ricordare qui che da alcune ricerche è emerso che i pregiudizi verso la malattia mentale siano presenti negli addetti ai lavori in misura addirittura superiore alla popolazione generale ( Nordt, Rossel, Lauber, 2006).

Questi percorsi unici, fatti di sospensioni, riprese, battute d’arresto, floridità sintomatica, riapertura della fiducia e della speranza, li vediamo bene nel loro dispiegarsi nel film.

Non ci vengono date spiegazioni, o proposte soluzioni, non vengono emessi giudizi.

Ciò che emerge e si impone man mano che seguiamo lo svolgersi delle vicende dei protagonisti e dei loro familiari è invece la dimensione soggettiva, l’esperienza soggettiva dei pazienti e dei familiari, insieme ad una concezione della cura molto vicina a quella visione evocata prima nel definire i processi di Recovery. Al modo di osservare del regista ben corrisponde questo approccio nella cura, che possiamo definire anche fenomenologico, lo vediamo in particolare nello psichiatra Mauro Pallagrosi, che stasera è qui con noi insieme a Munzi, con nostro grande piacere.

In conclusione possiamo pensare che si sia realizzata una saldatura tra quella visione della cura e del disagio mentale e il modo in cui il regista è entrato in questa realtà, con la propria esperienza soggettiva, che, insieme alla sua maestria, alla sua arte, hanno reso possibile la realizzazione dell’ opera.

Un incontro di soggettività che ci fa vivere dall’interno l’esperienza vissuta, senza sconti sul dolore, l’angoscia, gli interrogativi senza risposta, ma anche trasmettendo fiducia, significato e speranza.

Conclusioni a cura di Giorgio Fugazza

Nel 1906 Freud scriveva “Né il poeta può sfuggire allo psichiatra né lo psichiatra al poeta e la trattazione poetica di un tema psichiatrico può, senza perdere la propria bellezza, risultare corretta”.

Il film documentario Kripton, di Francesco Munzi, sembra essere la compiuta ed esatta trascrizione cinematografica del concetto freudiano.

La poesia permea l’intera narrazione che procede con grande rispetto della sofferenza senza mai scadere nelle purtroppo ben note forme di spettacolarizzazione.

Il film è stato presentato da Maria Chiara Pandolfo che, al termine della proiezione, ha aperto il dibattito con il bel commento pubblicato nel sito.

Alla discussione hanno partecipato il regista Francesco Munzi e Mauro Pallagrosi, psichiatra responsabile dei percorsi residenziali del PIPSM (servizio prevenzione e interventi precoci in salute mentale) della ASL Roma 1, che ha attivamente collaborato alla realizzazione dell’opera.

Francesco Munzi ha raccontato con grande generosità il suo straordinario coinvolgimento artistico e affettivo che lo ha animato nella costruzione attenta dei rapporti con i ragazzi intervistati, con i loro familiari e con il personale sanitario delle comunità residenziali, location naturali di questo intensissimo film.

Mauro ha riportato nel dibattito la sua esperienza di responsabile delle strutture alle prese con la necessità di coinvolgere, con assoluta discrezione e rispetto delle loro volontà, i ragazzi ospiti, mantenendo il contesto di cura e osservando il valore terapeutico dell’esperienza, risultato dell’interazione positiva e creativa tra ragazzi, familiari, troupe e curanti.

I molti interventi del pubblico hanno contribuito a rendere la serata davvero molto piacevole e interessante.

Mi auguro di vedervi alla prossima serata di ARPAd Cinema.

A presto.

Giorgio Fugazza

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