I 40 anni della rivista Adolescence, celebrano il successo di una grande impresa culturale che ha aperto, a livello internazionale, il mondo dell’adolescenza alla comprensione psicoanalitica. Philippe Gutton, dando vita e dirigendo per più di 30 anni Adolescence, non ha solo creato una eccellente rivista ma ha creato un luogo di incontri e di confronti a cui anche la nostra associazione ha negli anni stabilmente partecipato cercando di offrire, con gratitudine, il proprio contributo.
Vengo ora ai due termini del panel: Processi terziari e Soggettivazione, che avvicino utilizzando un’altra coppia di termini: Traduzione e Paradosso.
Ovviamente né l’uno né l’altro sono concetti propriamente psicoanalitici, anche se con la psicoanalisi hanno molto a che fare.
Pensiamo, a proposito della Traduzione, a Freud che, in una lettera a Fliess (6 dicembre, 1986), spiegava la rimozione come un fallimento della traduzione; pensiamo a Laplance che ha definito l’apparato psichico come un apparato di traduzione, oppure alla funzione dei processi terziari, che –per Green- è quella di tradurre in termini linguistici il funzionamento di un apparato psichico che non è di per sé fondato su elementi linguistici.
E ancora, a proposito di ‘traduzione’ e di adolescenza, abbiamo tutti ben presente un concetto chiave formulato da Gutton, fondamentale per la comprensione clinica dell’adolescenza: quello dell’infantile come traduttore del pubertario (Gutton 2013, p. 66).
Ma, se ho deciso di affrontare il tema della traduzione per guardare alla Terzità e alla Soggettivazione, non è tanto per i suoi seducenti rimandi teorici. Ho scelto questo vertice perché la necessità di tradurre ha fortemente caratterizzato tutto il dialogo con Philippe Gutton; la traduzione crea innegabilmente una barriera e anche oggi, qui tra noi, ne avvertiamo il peso.
Tuttavia proprio questo incontro mi ha fatto riflettere sulle potenzialità implicite nell’azione di tradurre, perché tradurre è anche una importante occasione.
Philippe Gutton nel libro ‘’Quel autre, si je viellis?”, cita una felice espressione di Luis Jouvet: ‘trasformer les obstacles en marchepied’ (trasformare gli ostacoli in punti d’appoggio) e così anche io ho scelto di usare l’ostacolo della traduzione come un ‘marchepied’ da cui guardare ai due temi del panel. Infatti se da un lato la traduzione è un ostacolo nell’incontro, dall’altra ci invita, ci convoca a una speciale terzità, perché sia che io traduca in prima persona, sia che ci sia un traduttore, interviene comunque un Terzo a fare da mediatore non solo dei significati, ma del senso del discorso.
Tradurre confronta il traduttore con un vero e proprio paradosso: il buon traduttore deve essere il più possibile fedele all’oggetto (il testo, il discorso…), ma per raggiungere questa fedeltà oggettiva, deve ‘interpretare’ il testo e cioè dare largo spazio alla propria soggettività.
Che senso ha questo paradosso? Come se la cava il traduttore? Il traduttore può tradurre parola per parola, più o meno ciò che oggi fa oggi il computer, oppure può accettare la sfida e in questo caso il paradosso apre alla possibilità di creare un ‘ponte vivente’ tra senso e significato. Prendendo a prestito l’espressione con cui Gutton definisce i processi terziari, (come sapete Gutton li definisce ’agents de liaison’) direi che ‘tradurre’, è un potenziale ‘agent de liaison’, una funzione che può raccogliere e veicolare nello spessore della parole, della grammatica e della sintassi, la qualità della libido, il ‘discorso vivente’ (Green).
Il rischio della traduzione -e del tradimento- non è tanto fraintendere i significati quando perdere il senso del discorso. Ma quando il senso risuona il traduttore può godere di un grande privilegio, quello di compartecipare intimamente all’emozione creativa dell’autore, e può venire vivificato della vitalità di quel ‘discorso vivente’. Pensiamo, per esempio, a quanto sia bello soffermarsi sulle parole con un’ attenzione che –per chi non è un poeta- si ha solo quando si traduce; tradurre ci invita a gustare le sfumature verbali dell’Altro, con la maiuscola, del discorso dell’Altro ed è anche un utilissimo allenamento all’ascolto clinico: prendiamo per es i termini che Gutton utilizza per descrivere l’evoluzione dell’edipo in adolescenza: tutta la sua teorizzazione si gioca su due termini: diseguaglianza e differenza, apparentemente sono due sinonimi , ma in realtà sono due termini che incarnano significati molto diversi e dinamiche psichiche molto diverse.
Tradurre è quindi una bella conquista che –paradossalmente- implica l’accettazione di una perdita, perché per quanto bene si traduca “le parole hanno un sapore, hanno un corpo verbale che resiste a essere tradotto” (Derrida).
Proprio per preservare negli incontri con Gutton questo ‘sapore’ e questo ‘corpo verbale’, abbiamo sempre privilegiato la traduzione consecutiva, al fine di lasciare il massimo spazio alle sonorità vocali, al ‘suo’ francese, al ‘suo’ linguaggio, al senso al di là dei significati.
E grazie a questo, abbiamo condiviso più volte una sorprendente esperienza linguistica, che definirei ‘translinguistica’: alla fine dei nostri seminari che spesso si protraevano per un’intera giornata, quando l’Io di noi partecipanti, un po’ stanco, abbandonava il suo bisogno di definire e controllare, le nostre due diverse lingue, l’italiano e il francese, si confondevano in un’affettuosa (simpatica) babele in cui senza più sapere che lingua stessimo parlando assaporavamo l’immediatezza del senso.
E -tornando al tema del panel- non è forse questo il processo terziario? Non è la possibilità di riunire le due rive del senso e del significato, dell’Io e del Sé?
E veniamo al Paradosso, l’altro tema (o vertice?) da cui osservare (guardare ai) i due termini del nostro panel.
In una giornata di studio organizzata dalla rivista Adolescence è immediato pensare alle innumerevoli dicotomie che esplodono nell’orizzonte adolescente: vivere/morire, dipendenza/indipendenza, etc … E qui la domanda importante, al di là delle generalizzazioni sull’adolescenza, è capire come quel certo adolescente legge queste coppie di termini; ma è altrettanto importante riflettere su di noi terapeuti: come leggiamo queste contrapposizioni? Le consideriamo antinomie o paradossi?
Antinomia e paradosso sono due termini che vengono spesso utilizzati come sinonimi ma – al di là dei codici verbali- distinguerli ha un grande valore clinico.
Personalmente non credo nei sinonimi ma ritengo sempre illuminante scendere nel profondo delle etimologie: il termine antinomia, dal greco anti-nomos designa una netta contrapposizione dato che il prefisso ‘anti’ significa ‘contro’; invece il termine ‘paradosso’, dal greco para-doxa, grazie al prefisso ‘para’ indica l’andare oltre (‘para’ si traduce ‘oltre’ e ‘doxa’ è l’opinione comune). Come vedete l’etimologia illumina una profonda differenza perché l’antinomia è una contrapposizione che blocca, il paradosso invece è una contrapposizione che mette in moto verso un “al di là”.
Ma chi decide se la coppia vivere-morire è una antinomia insolubile o un paradosso creativo? E’ tutto qui il problema della clinica, e anche -purtroppo- dell’.
Il problema -e anche la confusione tra i due termini- nasce dal fatto che per l’Io risolvere una contraddizione significa rimuovere, reprimere, negare; per il Sé risolvere una contraddizione significa invece integrare gli opposti in una complessità dinamica. Prendendo ispirazione dalle parole di Gutton, l’antinomia ci fa precipitare nello spazio deserto del la scissione tra Io e Sé; il paradosso funziona ‘autreman’ (altrimenti), può mette in moto una domanda e ci spinge ad andare oltre, a traversare quello spazio che Gutton chiama “l’inconu du clivage” (lo spazio sconosciuto della scissione): il paradosso è una provocazione che ci cattura e ci sollecita, ci spinge.
Quando Gutton titola uno dei suoi ultimi libri ‘L’Ephémère. L’art du chateau de sable’, sta dando vita a un paradosso: cosa c’è di più paradossale di un castello di sabbia? Il castello, per essere un castello, deve essere solido e inattaccabile e, se è fatto di sabbia, non è più un castello.
Ma la forza euristica del titolo sta proprio nell’accostamento paradossale dei termini, un accostamento che cattura il lettore, lo induce a cercare nel libro qual cosa per lui di vitale, qual cosa che è implicito, già promesso nel paradosso del titolo, e –spinto dal paradosso- procede verso un capitolo che si chiama ‘Au de là de l’ephémère’ e che il lettore incontra proprio lì dove doveva essere, come l’oggetto creato-trovato di Winnicott.
Questa capacità di Gutton di navigare nel paradosso è ciò che gli consente, sul piano metapsicologico, di porsi al di là della seconda topica freudiana, non per negarla ma per avanzare verso una terza topica.
Gutton, negli scritti bellissimi sulla tenerezza, mette in luce come la grande sfida della vita, di tutto l’arco della vita, è porsi al di là della logica dicotomica dell’Io –e quindi anche al di là della seconda topica freudiana- pur senza negarla.
Si tratta di una sfida paradossale, sempre aperta; la sfida di cercare-trovare il proprio modo di funzionare ‘autrement’ senza soggiacere alle dicotomie degli opposti e senza negarle.
E mi sembra che proprio gli avverbi ‘de facon innovante’ (in modo nuovo) e ‘autreman’ assumano nel pensiero di Gutton un valore fondamentale, e contengono il germe vitale del Soggetto della Terza topica. Un Soggetto che, come il cavallo nel gioco degli scacchi, non è costretto a muoversi solo avanti e indietro, ma si può muovere anche di lato (come sapete tutti i pezzi della scacchiera sono costretti a muoversi in linea retta, o avanti o indietro, ma il cavallo ha la possibilità di muoversi anche di lato disegnando un angolo).
Pur costretto nello spazio quadrato della scacchiera e delle sue regole, il cavallo -come il Soggetto- ha una piccola, ma preziosissima possibilità: quella di muoversi “de facon innovante”, di muoversi “autrement”.