Recensione presente su AeP Adolescenza e Psicoanalisi Anno 2021 n.1 “Il doppio”
A cura di Sara Cruciani
Dalle fondamenta, il film di Ozon (2017) poggia e trova struttura intorno alla tematica del doppio. Un thriller erotico, liberamente ispirato al testo Lives of the Twins di Joyce Carol Oates.
Sfrontato, tagliente, Doppio amore scompone la duplicità nelle sue molteplici sfaccettature, declinandola.
Epicentro della storia, il personaggio di Chloé. Bellissima, qualcosa di costantemente inafferrabile la caratterizza. Una giovane donna, fragile, la cui patologia viene inchiodata sin dalle prime immagini.
Dopo un drastico taglio di capelli – simbolo di rottura con un passato narrato solo attraverso il suono ritmico delle lame – la scena mostra la protagonista sul lettino della ginecologa. L’inquadratura passa dallo speculum che esplora l’utero all’occhio che piange una lacrima.
Entra così, subito in campo, l’aspetto traumatico raccontato dal corpo, scrigno dei segreti della sofferenza psichica.
Il controllo medico trova la donna in salute. Il dolore all’addome, che mai la abbandona, deve avere, perciò, un’origine psicologica. Chloé pare solo ricevere una conferma nell’ipotesi diagnostica, già consapevole che il sintomo organico è lo specchio della sofferenza interiore.
Di fronte al consiglio di una consulenza «psi», la donna si dice pronta per un percorso terapeutico e bussa alla porta del dottor Paul Mayer, discreto e affascinate psichiatra e psicoterapeuta.
Una scala a chiocciola accompagna Chloé verso la stanza di analisi, vertigo anticipatoria di risvolti esistenziali.
Il racconto della donna è delineato in modo nitido e diretto. Toccante, coglie nel segno, quasi ferisce: figlia di un rapporto occasionale, non ha mai conosciuto suo padre. Ostile verso una madre, vissuta, al contempo, assente e giudicante, un persecutore sempre presente nei suoi pensieri. Si dice incapace di amare, incline a sedurre l’Altro, il suo spettatore, perennemente pervasa da un senso di vuoto.
Pennellata dopo pennellata, la donna dipinge il racconto della propria sofferenza: la fantasia di una sorella gemella, un doppio che la proteggeva, affiora tra i ricordi della sua infanzia, quando a sette anni la madre le confessa di averla concepita per errore.
Personaggio problematico, il crogiolo di elementi enigmatici svela un funzionamento francamente patologico.
In una dinamica di duplice seduzione, il regista propone un’evoluzione classica quanto scontata. Quando Chloé pare migliorare, Paul le confida i suoi sentimenti, incompatibili con il lavoro terapeutico. Sentimenti ricambiati, che trasformano la coppia analitica in coppia amorosa.
Nel quotidiano senza intoppi in cui sembra scorrere la vita dei due, non svanisce quel clima di tensione – di sospensione – che lascia immersi nella costante sensazione che i fragili equilibri possano saltare da un momento all’altro.
L’evento precipitante accade quando la donna si imbatte nel passaporto del compagno, scoprendo il suo vero cognome. Paul Mayer diventa lo sconosciuto Paul Delord, la sua vera identità è, quindi, nascosta sotto falso nome.
L’oggetto-passaporto innesca in Chloé un processo psichico di non ritorno: aspetti identitari scissi e nascosti ribaltano la scena occupando il primo piano, in un susseguirsi incalzante di intrecci che mescolano dimensione reale e immaginaria. Del resto, il gioco filmico soggiace proprio nella duplicazione dei piani e lo sdoppiamento, l’inizio di una fantasia visionaria e delirante viene sempre annunciato dell’uso delle immagini.
Il silenzio dove partorire fantasie è offerto dal tempo trascorso nel museo, luogo di lavoro della donna: «Strano, no? Fare la guardia alla gente, per giunta in un museo». Lo stato oniroide, in cui Chloé sembra segretamente sostare, viene enfatizzato dal fascino dell’arte, che paradossalmente la espone figura tra le opere: la fragilità, la sensualità, occupano il primo piano sulla scena e la storia si rivela già compiuta.
In fondo, nella cornice filmica, le immagini anticipano la trama, divengono amplificatori emotivi, creando suggestioni che causano turbamento.
Nella teoria freudiana, il perturbante (1919) è sotteso alla dialettica heimlich/unheimlich e suscita, appunto, turbamento. Tra reale e immaginario, trova collocazione nello spazio transizionale, quando il lavoro della rimozione lascia un margine d’incontro con aspetti che evocano vissuti non ancora rappresentabili, causa di smarrimento e inquietudine.
Un trauma che lascia traccia nel corpo e nella psiche della protagonista, nell’affetto disancorato che accresce l’angoscia.
Elementi del reale danno vita, nell’intrapsichico, a una narrativa parallela.
Ecco, il film riesce bene a mostrare il funzionamento di una mente che lavora per duplicati: difese massicce e arcaiche proiettano all’esterno parti del Sé, forse anche nel tentativo di conoscerle. Se la tendenza dell’Io è quella di mantenere l’unità, la scissione verticale del Sé permette la frammentazione di aspetti negati che possono, così, vivere in un altrove.
L’altrove prende vita nel personaggio del gemello omozigote di Paul, Louis Delord, anche lui terapeuta, speculare e antitetico rispetto al fratello.
Con lui la terapia interrotta con l’analista-compagno continua in fantasia: attraverso allucinazioni lucidamente deliranti, Chloé dà corpo a un doppio che può permettersi di incarnare perversi desideri sessuali, tanto spinti da risultare privi di passione.
Mentre tiene disgiunta la realtà esterna dal fervido racconto interiore, Chloé innesca un processo che la conduce via via a captare il senso del misterioso disturbo che l’affligge. Il male alla pancia, scomparso con l’avvento di Paul, riappare inesorabile quando la donna ritrova l’oggetto passaporto, l’elemento perturbante.
L’angoscia di Chloé viene tradotta nel timore che Paul sospetti il tradimento, ovvero nel rischio che i gemelli possano ricongiungersi, coabitare lo stesso campo psichico.
Nella notte dei tempi si perde la genesi della narrativa sul tema dei gemelli. Creature mostruose, visceralmente legare e eternamente in competizione.
Nel bisogno di tenere unite le due polarità, il trio dei personaggi sembra, in un certo senso, in contrasto con la dialettica repentina del film.
Chloé e i gemelli trasmettono un senso di paralisi, di blocco evolutivo. Il personaggio buono e pacato da un lato, quello malvagio, il lato oscuro, perverso e animalesco dall’altro. In mezzo lei che, nella ricerca di un tentativo di elaborazione, appare risucchiata in un vortice, la cui possibilità risolutiva è offerta dalla crisi, dalla rottura della stasi identitaria.
L’apoteosi di fantasie mortifere e allucinazioni anticipatorie tracima nel collasso psichico. Quando la protagonista non sostiene più il ritmo del pensiero delirante crolla, facendo un brusco rientro nella realtà.
In questo senso, agire i propri fantasmi angosciosi ha fornito, forse, la possibilità di dar voce a un «conosciuto non pensato» rappresentato dell’ennesimo paradosso, il più importante e catartico.
Una Chloé ormai disarmata e bisognosa scopre di portare in grembo la colpa originaria che da dentro la divora. È lei la vera gemella dominante, che cannibale incorpora il feto della propria sorella. Questo ultimo e fondamentale ribaltamento del film funziona come una beffa.
Il dolore non è solo psicosomatico, ma è anche reale e concreto, presente nelle viscere della donna sin dal suo concepimento.
Ancora una funzione dal duplice significato, una matrice organica su cui si innesta la sofferenza mentale lascia intuire la fittizia illusione sostenuta da un «doppio amore»: la magnetica attrazione verso il proprio riflesso, l’immagine di sé di fronte allo specchio.
In fondo il doppio, per Freud (op. cit.), permette la regressione a epoche in cui i confini dell’Io non sono ben delineati, quando il soggetto può vivere in quell’illusione che l’altro da sé, il gemello, possa proteggerlo dalla propria fragilità e dal timore della caducità.
Bibliografia
FREUD S. (1919). Il perturbante. In: OSF. Vol. 9. Torino: Boringhieri